Cervelli in fuga: se l’Italia non mi valorizza vado all’estero
Lavorano in ogni angolo del mondo ma, al contrario dei loro colleghi, i ricercatori italiani “fuggiti all’estero” non pensano di ritornare in patria. O almeno, coloro che hanno la saudade del Belpaese sono pochi: meno della metà. Il perché è presto detto. In Italia le condizioni di lavoro sono meno favorevoli da tutti i punti di vista: guadagni più bassi, possibilità di carriera striminzite e scarsa soddisfazione. Fuori dai confini, i nostri dottori di ricerca si trasformano e riescono a produrre più dei loro colleghi stranieri, portando acqua al mulino di paesi che formano meno ricercatori di quanti ne abbiano bisogno. A delineare un quadro ragionato del cosiddetto brain drain – che si traduce come “fuga di cervelli” – è Carolina Brandi, ricercatrice del Irpps-Cnr: l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali.
La Brandi studia da anni il fenomeno e nel 2014 ha prodotto un capitolo, inserito nel Rapporto Migrantes, dal titolo “L’emigrazione dei ricercatori italiani: cause ed implicazioni”, in cui cerca di comprendere, innanzitutto, la dimensione di questa fuga e, soprattutto, se esiste davvero. O non si tratti piuttosto di “normale mobilità” dei ricercatori come in tutti i paesi del mondo. Ma anche le motivazioni di una dinamica che assomiglia sempre più un esodo che impoverisce il Paese. Perché, tra il made in Italy famoso in tutto il mondo esportiamo anche ricercatori. E il “Country report” della Ue, appena pubblicato, lo conferma
REPDATA: I NUMERI DELL’ESODO
Il fenomeno. Esiste davvero la fuga dei cervelli italiani all’estero? A sentire i commenti degli italiani all’estero che in questi giorni hanno riacceso la polemica sul sottofinanziamento della ricerca italiana e sulle scarse possibilità di realizzazione professionale non ci sarebbero dubbi. Ma negli anni scorsi alcuni studiosi hanno messo in dubbio perfino l’esistenza del fenomeno. Anche perché non esiste nessuna banca dati con i riferimenti di tutti i ricercatori nostrani in attività all’estero. Appena varcano i nostri confini di questi si perdono le tracce e occorre andare a scandagliare le banche dati di organismi diversi per avere un’idea della consistenza numerica del fenomeno. Per la Brandi la fuga dei cervelli italiani c’è e sarebbe dovuta al fenomeno dell‘overeducation: “produciamo” più dottori di ricerca di quelli che il nostro anchilosato mercato del lavoro riesca ad accogliere e la differenza si reca all’estero. La soluzione e duplice: o il mercato del lavoro si riorienta verso l’innovazione assorbendo i dottori di ricerca in esubero oppure occorre ridurne i numeri, condannando l’Italia al declino economico e sociale.
I numeri dell’esodo. Ogni anno, circa 3mila ricercatori italiani – dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo accademico – prendono la via dell’estero. L’Italia, tra i paesi europei più industrializzati, esporta più ricercatori di quanti non ne importi dagli altri paesi. Per il nostro Paese il saldo è paurosamente negativo: meno 13,2 per cento. In altre parole, perdiamo il 16,2 per cento di ricercatori fatti in casa che si vanno a confrontare con i colleghi stranieri e riusciamo ad attrarre il 3 per cento di scienziati di altri paesi. Il confronto con le nazioni europee di riferimento è impietoso. “Per molte altre nazioni europee – scrive la ricercatrice – le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, o positive come nel caso della Svizzera e della Svezia (oltre il +20 per cento), del Regno Unito (+7,8 per cento) e Francia (+4,1 per cento). Perfino la Spagna, la cui economia non brilla certamente, ci tiene a debita distanza con una perdita contenuta all’1 per cento. Una situazione che per l’Italia si traduce in un impoverimento del capitale umano a scapito dello sviluppo che, al ritmo di 3mila ricercatori italiani all’estero all’anno in un decennio – dal 2010 al 2020 – l’Italia perderà qualcosa come 30mila ricercatori costati agli italiani qualcosa come 5 miliardi, che all’estero contribuiranno allo sviluppo economico di quei paesi. Non proprio un affare.